Si può avere un approccio sessuale con una persona solo se questa acconsente. Solo se è sì. Tutto il resto è reato

Il 16 giugno 2025 la Corte di Cassazione ha emesso una pronuncia di enorme rilevanza sul tema della violenza sessuale, sancendo un principio fondamentale che si sarebbe dovuto affermare molto prima: il tempo trascorso tra la violenza subita e la reazione o denuncia della vittima non è un elemento di rilevanza probatoria e tantomeno non può influire negativamente sulla valutazione della credibilità della persona offesa.

La Suprema Corte, facendo chiarezza, ha ribadito un principio che si era già affermato in precedenti decisioni, ma che ad oggi era ancora oggetto di interpretazioni contrastanti e, purtroppo, di pregiudizi radicati. In particolare, nel testo della sentenza si legge:

“Il ritardo nella reazione o nella denuncia da parte della persona offesa, anche se prolungato, non costituisce di per sé indice di inattendibilità o di inesistenza della violenza subita, essendo noto agli studi psicologici e giuridici come il trauma, il senso di paura, di vergogna o di colpa possano paralizzare la vittima impedendole di reagire immediatamente.”

Questa pronuncia arriva con fermezza a mettere un punto contro una prassi, malgrado per la Giustizia, troppo diffusa, che ha visto spesso vittime di violenza sessuale nelle aule di tribunale ma anche in quelle dell’opinione pubblica, sottoposte a domande volte più a delegittimarle che a cercare la verità, domande come:

  • “Com’eri vestita?”
  • “Quanto tempo è passato prima che tu abbia reagito o denunciato?”
  • “Perché non hai subito detto nulla?”

Questi interrogativi rappresentano una grave forma di vittimizzazione secondaria, un ulteriore trauma che pesa su chi subisce violenza, insinuando dubbi sulla sua onestà o sul suo comportamento. La Cassazione con fermezza respinge queste logiche:

La valutazione della credibilità della vittima deve basarsi su un complesso di elementi oggettivi e circostanziati, e non su stereotipi o pregiudizi culturali che finiscono per colpevolizzare la vittima e sottrarre attenzione al responsabile del reato.”

Non si tratta quindi di un puro formalismo giuridico, ma di un riconoscimento concreto di quanto le reazioni al trauma siano soggettive e variabili. Già in precedenti sentenze — come la n. 24111/2024 — la Cassazione aveva evidenziato come la “tempistica della denuncia” non si possa considerare un elemento univoco di veridicità o falsità della denuncia stessa. In quell’occasione, la Corte Suprema aveva sottolineato l’importanza di tenere conto delle condizioni psicologiche della vittima, riconoscendo che il meccanismo di difesa può portare a un silenzio protratto, senza che ciò in alcun modo diminuisca la fondatezza del racconto.

La novità della sentenza di ieri è soprattutto la fermezza con cui si condanna l’uso di questi pregiudizi nelle aule di giustizia e nei contesti investigativi, dove troppo spesso le vittime vengono messe sotto esame con domande che tendono a mettere in dubbio la loro integrità e buona fede e ignorano la reazione della mente ad un trauma di tale portata.

Ma perché questa sentenza è così importante?

Beh, questa pronuncia tocca un nervo scoperto della cultura italiana, ma non solo. La questione del “tempo di reazione” è uno dei temi più delicati e controversi nel dibattito sulla violenza sessuale a livello globale. La psicologia da decenni ha dimostrato che il trauma sessuale ha effetti profondi e complessi: blocco psicofisico, dissociazione, paura paralizzante, senso di vergogna e auto-colpevolizzazione sono reazioni comuni e assolutamente normali. Pretendere che una vittima reagisca o denunci immediatamente equivale a ignorare la realtà di questi meccanismi e contribuisce a un clima di sfiducia e isolamento. Si ha paura di denunciare perché le vittime ‘perfette’ non esistono e chi subisce uno stupro si chiede “e se non mi credono?”.

Non è un caso che l’ONU e molte organizzazioni internazionali di tutela dei diritti umani abbiano ripetutamente denunciato la tendenza di molti sistemi giudiziari a colpevolizzare le vittime piuttosto che proteggerle. La sentenza della Cassazione si inserisce in questo filone di riforme culturali e giuridiche, invitando a superare stereotipi anacronistici e dannosi.

Domande su abbigliamento e reazione hanno un impatto devastante

Domande come “Com’eri vestita?” sono universalmente riconosciute come strumenti di colpevolizzazione indiretta della vittima, perché spostano l’attenzione dal comportamento dell’aggressore a quello della vittima. In pratica, s’insinua più o meno implicitamente un alibi, per cui il modo di vestirsi possa giustificare o attenuare la violenza subita, un messaggio inaccettabile che alimenta la cultura dello stupro. Anche perché ormai lo sappiamo più o meno tutti: lo stupro ha a che fare con il potere, non con il sesso.

Allo stesso modo, chiedere “Perché non hai reagito subito?” o “Perché hai aspettato tanto a denunciare?” non tiene conto delle complessità psicologiche e sociali che scaturiscono dopo un trauma. La sentenza del 16 giugno 2025 evidenzia chiaramente che la tempistica della reazione non può essere usata come parametro di giudizio.

Un appello per l’educazione sessuale nelle scuole

Se da un lato la giurisprudenza evolve, dall’altro la cultura della società deve necessariamente cambiare. Ed è qui che entra in gioco l’educazione sessuale nelle scuole, un tema trattato superficialmente e che nel nostro Paese sembra ancora essere molto controverso.

Un’educazione sessuale integrata e multidisciplinare, basata sul rispetto, sul consenso e sulla conoscenza del proprio corpo (e quello altrui) e dei propri diritti (e di quelli altrui), è il modo più efficace per prevenire la violenza sessuale e per creare una società più consapevole e giusta. Una società migliore per tutti. Insegnare fin da giovani a riconoscere il consenso, a rispettare i limiti altrui e a parlare apertamente di queste tematiche è essenziale per strappare molte radici culturali che ancora oggi permettono la diffusione di pregiudizi e stereotipi (“le donne dicono NO ma vorrebbero dire SÌ”, “se è geloso vuol dire che ti ama”).

In conclusione, la pronuncia della Cassazione del 16 giugno 2025 rappresenta una pietra miliare nel cammino verso una giustizia più equa e rispettosa. L’irrilevanza del tempo di reazione riconosciuta dalla Suprema Corte contribuisce a mettere fine a condotte investigative e processuali che spesso hanno aggiunto dolore al dolore, paura al trauma e cosa peggiore, non hanno reso giustizia alle vittime di violenza sessuale.

Tuttavia, questa importante vittoria giuridica deve andare di pari passo con un impegno culturale più ampio, che smuova la coscienza collettiva, parta dalle scuole e investa tutta la società. Solo così saremo in grado di costruire un futuro in cui la parola vittima non sia mai più sinonimo di sospetto, ma di ascolto, tutela e giustizia.

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Alessia Lazzaroni 

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